A tredici anni distanza da Brevi Momenti di Presenza, gli Anatrofobia tornano a pubblicare un album, il settimo in studio della loro quasi trentennale carriera.
Le novità non potevano mancare, a partire dalla line-up che a fianco degli “storici” Luca Cartolari ed Andrea Biondello, annovera Cristina Trotto Gatta (già in Masche) che riesce magicamente ad arricchire il suono in una band storicamente strumentale, così come l’anima e gli strumenti punk di Paolo Cantù (Makhno).
Infine, come suonano Anatrofobia? Ci aiuta Nazim Comunale, da The New Noise, con parole di qualche tempo fa:
Troppo colti e cerebrali per il jazzcore, troppo punk per gli ambienti accademici, troppo silenziosi per gli amanti del free più fisico, troppo intelligenti per chi crede che basti un sassofono per poter dire che quello è jazz, capaci di muoversi con disinvoltura tra ombre di contemporanea e ruggini rock, in una terra di mezzo ignota e non ancora colonizzata dove convivono felicemente un approccio selvaggio eppure controllato e calibratissimo al suono e alle sue componenti dinamiche e timbriche, le ansie da hardcore da camera dei grandi Koch Schutz e Studer (forse il punto di riferimento più stabile per la band) con i profili della storia del jazz libero rivisti attraverso una lente sempre personale e coraggiosa.